domenica 18 gennaio 2015

Nel far west petrolifero italiano c’è anche “Offshore Ibleo”

Un bello scorcio della costa Siciliana, il golfo di Gela, una costa bassa e sabbiosa davanti alle province di Caltanissetta, Agrigento e Ragusa, quest’ultima insignita della bandiera blu dalla Foundation for Environmental Education, l’organizzazione europea che si occupa di educazione ambientale. È qui che grazie all’articolo 38 del decreto Sblocca Italia, convertito nella Legge 164/2014, dopo il parere positivo dato dal Ministero dell’Ambiente sull’impatto ambientale, il Ministero dello Sviluppo Economico ha concesso l’autorizzazione conclusiva al progetto “Offshore Ibleo”. Non si tratta però di un’attenta strategia di sviluppo per un turismo sostenibile e comunitario, ma della concessione fatta ad ENI ed EDISON che prevede lo studio e la realizzazione di otto pozzi, di cui due “esplorativi”, una piattaforma e vari gasdotti che, secondo un dettagliato report (.pdf) di  Greenpeace Italia, “non tiene in alcun conto i rischi ambientali e i drammatici impatti socio economici”.

I due pozzi esplorativi sono, infatti, alla distanza di “insicurezza” di circa 25 e 28 km dalla costa, mentre altri sono assai più vicini. Ma il lungimirante progetto prevede anche un’area a terra di circa 2.500 metri quadrati, dove è prevista la realizzazione di infrastrutture di connessione con la rete distributiva e stoccaggio temporaneo durante i lavori, situata a circa 5 km dal centro di Gela in un’area compresa nella Zona di Protezione Speciale (ZPS) “Torre Manfria, Biviere e Piana di Gela”,  prossima al Sito di Interesse Comunitario (SIC) “Biviere e Macconi di Gela” e inclusa un una Important Bird Area. Come se non bastasse per l’ong lo Studio di Impatto Ambientale (SIA) presentato da ENI è assolutamente insufficiente in materia di valutazione e gestione delle risorse ittiche e impone al proponente di “effettuare una più approfondita valutazione degli impatti per le attività di pesca e prevedere adeguate forme di compensazione”.

Per gli ambientalisti, però, il testo della prescrizione sembra sia stato redatto con la certezza che in ogni caso una seria valutazione degli impatti sulla pesca non possa comportare un arresto del progetto, come dire che tra pesca e petrolio non c’è gara... Al massimo, si potrà prevedere una qualche compensazione economica agli operatori che fossero eventualmente “colpiti” dalle attività in questione. “Lo Studio di ENI, - ha spiegato Greenpeace - non accenna mai al rischio generale per il complesso delle attività di pesca e delle risorse ittiche del Canale di Sicilia (potenzialmente minacciate da un incidente petrolifero), ma solo ai pescatori che operano nell’area che potrebbero subire presumibili cali di resa durante l’installazione della piattaforma. Insomma, per questi signori, il problema sarà al massimo compensare quei pochi pescatori che non potranno operare (per qualche anno) in un’area che sarà interdetta alla pesca”.

Anche per questo accanto a Greenpeace, l’ANCI Sicilia, Comune di Licata, Comune di Palma di Montechiaro, Comune di Ragusa assieme alla LIPU, Touring Club Italiano e WWF hanno presentato il 12 gennaio al TAR del Lazio un ricorso aggiuntivo contro il progetto “Offshore Ibleo”, chiedendo “una immediata sospensiva dell’autorizzazione emanata dal Ministero dello Sviluppo Economico” e, quindi, il rigetto di un progetto che si basa su una procedura di valutazione del rischio che, ad avviso dei ricorrenti, è “monca, pericolosa e inaccettabile”. E mentre nel Paese montano le proteste contro gli appetiti petroliferi del nostro Governo, anche sei regioni: Abruzzo, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto, hanno dichiarato di presentare ricorso contro l’articolo 38 del decreto Sblocca Italia, per opporsi in nome di un altro sviluppo possibile al far west petrolifero italiano.

La rivolta dei territori e delle categorie economiche, come pesca e turismo, minacciate dalle trivelle è un segnale che il nostro Governo non può ignorare: altro che comitatini, nei territori si sta consolidando una diversa prospettiva di crescita e sviluppo”, hanno dichiarato le associazioni e i comuni. I proponenti del ricorso, come migliaia di altri cittadini che hanno firmato appelli contro le trivelle, “ritengono che non si debbano mettere a rischio la biodiversità del Mediterraneo in generale, e il Canale di Sicilia” in nome di un combustibile fossile che va necessariamente archiviato a vantaggio di forme di energia rinnovabile e meno impattante. "È scandaloso che dagli studi di impatto ambientale redatti dai petrolieri scompaia il valore della biodiversità e che chi ci governa non sappia comparare gli scarsi benefici, e i molti rischi, che derivano dall’estrazione di idrocarburi, con il valore aggiunto e le ricadute sociali di attività come la pesca e il turismo, senza considerare poi le conseguenze sanitarie della filiera del petrolio, tristemente evidenti in realtà (per limitarsi alla Sicilia) quali Gela e Augusta”. 

Come se non bastasse per i firmatari del ricorso la Sicilia, l’Italia e il Mediterraneo nel suo complesso sono in prima linea tra le aree maggiormente interessate dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. Per questo “Stimolare le estrazioni di idrocarburi, piuttosto che investire in efficienza energetica e fonti rinnovabili pulite, è semplicemente suicida: il 2014 è stato l’anno più caldo da quando le temperature vengono registrate. Gli effetti del cambiamento climatico sono evidenti nel nostro Paese, con costi economici rilevanti per la nostra agricoltura (si pensi alla crisi della produzione dell’olio d’oliva) e un intollerabile tributo di vite umane dovuto a eventi meteo estremi, amplificati da un territorio sempre più fragile”. L’alternativa c’è! Occorre adattarsi al cambiamento climatico puntando sul consolidamento e sulla manutenzione dei nostri territori, sulla tutela del paesaggio e delle risorse naturali, investire su metodi innovativi e puliti per le produzione e la distribuzione dell’energia. Queste sono le sfide di un programma che veramente “sblocca l’Italia”, #NonFossilizziamoci!

Alessandro Graziadei

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